LE ORIGINI DELLA FESTA DEL PAPA’
La Festa del Papà ricorre il 19 Marzo in concomitanza con la Festa di San Giuseppe, che nella tradizione popolare, oltre a proteggere i poveri, gli orfani e le ragazze nubili, in virtù della sua professione, è anche il protettore dei falegnami, che da sempre sono i principali promotori della sua festa. Pare che l’usanza ci pervenga dagli Stati Uniti e fu celebrata la prima volta intorno ai primi anni del 1900, quando una giovane donna decise di dedicare un giorno speciale a suo padre. Agli inizi la festa del papà ricorreva nel mese di giugno, in corrispondenza del compleanno del Signor Smart alla quale fu dedicata, poi solamente quando giunse anche in Italia si decise che sarebbe stato più adatta festeggiarla il giorno della Festa di San Giuseppe.
In principio nacque come festa nazionale, ma in seguito è stata abrogata anche se continua ad essere un’occasione per le famiglie, e soprattutto per i bambini, di festeggiare i loro amati padri con regali e bigliettini di auguri, lavoretti, poesie, frasi e disegni. Infatti, nei giorni che precedono la festa, a scuola le maestre fanno preparare ai bambini dei “lavoretti” per la Festa del Papà, molte volte sono lavoretti di carta o cartoncino ritagliati e colorati che contengono poesie o frasi all’interno.
La festa del 19 marzo è caratterizzata inoltre da due tipiche manifestazioni, che si ritrovano un po’ in tutte le regioni d’Italia: i falò e le zeppole. Poiché la celebrazione di San Giuseppe coincide con la fine dell’inverno, si è sovrapposta ai riti di purificazione agraria, effettuati nel passato pagano.
In quest’occasione, infatti, si bruciano i residui del raccolto sui campi ed enormi cataste di legna vengono accese ai margini delle piazze. Quando il fuoco sta per spegnersi, alcuni lo scavalcano con grandi salti e le vecchiette, mentre filano, intonano inni per San Giuseppe. Questi riti sono accompagnati dalla preparazione delle zeppole, le famose frittelle, che pur variando nella ricetta da regione a regione, sono il piatto tipico di questa festa. A questo punto permettemi una piccola digressione storico-gastronomica sulle “zeppole” (così a Napoli si chiamano).
LE ZEPPOLE DI SAN GIUSEPPE TRA STORIA E TRADIZIONE
Le zeppole sono diffuse in tutto il Meridione d’Italia, ma la vera zeppola è napoletana.
Al forno (meno caloriche) o fritte, per la Festa del Papà, compaiono in tutte le pasticcerie e sulle tavole napoletane. La zeppola fa parte della tradizione dolciaria napoletana, ma se proprio dobbiamo farci male, meglio fritta che al forno.
Nell’antica Roma il 17 marzo si celebravano le “Liberalia”, feste in onore delle divinità del vino e del grano. Per omaggiare Bacco e Sileno, precettore e compagno di gozzoviglie del dio, il vino scorreva a fiumi: per ingraziarsi le divinità del grano si friggevano delle frittelle di frumento.
Per San Giuseppe, che ricorre solo due giorni dopo (19 marzo), la fanno da protagoniste le discendenti di quelle storiche frittelle: le zeppole di san Giuseppe
Si racconta che il 19 Marzo i friggitori napoletani si esibissero pubblicamente nell’arte del friggere le Zeppole davanti alla propria bottega, disponendovi tutto l’armamentario necessario.
Come la maggioranza dei dolci napoletani anche questo dolce ha origine conventuale, forse nel convento di San Gregorio Armeno, ma c’è anche chi ne attribuisce “l’invenzione” alle monache della Croce di Lucca, o a quelle dello Splendore, le famose monache ad ogni festività inventavano un dolce diverso.
Un’altra teoria è che la Zeppola di San Giuseppe sia un dolce tipico della zona vesuviana e, come si intuisce dal nome, trae le sue origini nel comune di San Giuseppe Vesuviano.
La prima ricetta pero’ la ritroviamo nel trattato di cucina di Ippolito Cavalcanti, celebre gastronomo napoletano, ed e’ del 1837.
Il 19 marzo è san Giuseppe, festa del papà, e da nord a sud è tutto un festeggiare a suon di zeppole e dolcetti fritti, tanto da far guadagnare al patrono dei falegnami l’epiteto di santo delle frittelle e alcune leggende popolari tramandano che di secondo lavoro facesse il friggitore.
San Giuseppe è il protettore dei poveri e per questo in molte regioni meridionali, come la Campania, la Sicilia e l’Abruzzo, in passato si usava invitare i meno fortunati al banchetto in suo onore. E mentre un sacerdote benediceva la tavola, gli ospiti erano serviti dai padroni di casa.
Nella tradizione napoletana esistono due varianti di zeppole di San Giuseppe: fritte e al forno. In entrambi i casi le zeppole hanno forma circolare con un foro centrale e sono guarnite ricoprendole di crema pasticciera con sopra delle amarene sciroppate. In alcune varianti, possono essere tagliate a metà e farcite con crema pasticciera, mentre la guarnizione viene fatta con due amarene sciroppate sistemate in due punti opposti o un cucchiaino di marmellata di amarene. Poi vengono spolverate con zucchero a velo.
Tra le varianti preparate in casa vi sono zeppole intrecciate a forma di “elle” minuscola, fritte e passate ancora calde nello zucchero. Queste zeppole non hanno tipicamente la crema.
L’etimologia della parola (già attestata nel latino tardo antico dl VI sec) non è chiara: secondo alcuni rimanderebbe a “zeppa”, pezzetto di legno che si usa per chiudere una fessura o per correggere l’appoggio dei mobili; altri invece propendono per la derivazione dal nome Giuseppe. A proposito delle “zeppolelle a elle” c’è una brevissima poesia scritta in napoletano che voglio farvi leggere ad ulteriore conferma della loro origine napoletana. ‘E canuscite ‘e zeppule?
Si pruvenite ‘a Napule
‘a cosa è assaje probabile.
P’e fà nunn’è difficile:
acqua e farina, impastale,
e po’ miettele a frijere
pe dint’all’uoglio cavere.
Al finale, c’ea stennere
nu’ velo fatt’e zucchere.
Si nun ce crire, pruovale:
par’o magnà dell’Angele!
E’ vero o no; sti zeppule
nun songo irresistibile?
Traduzione
Non conosci le zeppole?
Se non vieni da Napoli
la cosa è assai probabile.
Preparale, ch’è facile:
procurati – è fattibile –
farina ed acqua. Impastale,
e poi nell’olio friggile.
Di zucchero cospargile:
ti mangi anche le briciole!
Se non ci credi, provale,
e poi dirai: ‘ste zeppole,
che gusto irresistibile
Ed ora, passando dal “profano” al “sacro”, vi propongo una bellissima poesia dedicata ad un papà che a me piace moltissimo e che più volte, nel corso degli anni ho proposto ai miei alunni, soprattutto quelli di quinta, più grandicelli.
E’ dedicata dal poeta Camillo Sbarbaro a suo padre.
A MIO PADRE
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
per te stesso egualmente t’amerei.
Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno
che la prima viola sull’opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegro.
Poi la scala di legno tolta in spalla
di casa uscisti e l’appoggiasti al muro.
Noi piccoli stavamo alla finestra.
E di quell’altra volta mi ricordo
che la sorella mia piccola ancora
per la casa inseguivi minacciando
(la caparbia avea fatto non so che).
Ma raggiuntala che strillava forte
dalla paura ti mancava il cuore:
ché avevi visto te inseguir la tua
piccola figlia, e tutta spaventata
tu vacillante l’attiravi al petto,
e con carezze dentro le tue braccia
l’avviluppavi come per difenderla
da quel cattivo ch’era il tu di prima.
Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me un estraneo,
fra tutti quanti gli uomini già tanto
pel tuo cuore fanciullo t’amerei..Camillo Sbarbaro
PADRE, SE ANCHE TU NON FOSSI IL MIO…..
Una lirica semplice, d’amore e di profondo affetto, quella di Camillo Sbarbaro.
Il suo amore profondo nei confronti del padre non nasce dall’obbligo in quanto figlio, ma dalle qualità personali del padre, tanto che egli lo amerebbe anche se fosse un estraneo.
Racconta di quando il padre, dopo aver scoperto la prima viola sul muro difronte, corse a darne notizia ai figli con l’allegria di un fanciullo. E subito dopo, sempre con lo stesso entusiasmo, si apprestò a prendere la scala per coglierla, mentre i bambini guardavano dalla finestra.
Un altro bel momento è quello in cui il poeta ricorda un ulteriore episodio della sua infanzia di cui sono protagonisti il padre e la sorellina. La scena rappresenta un uomo arrabbiato che insegue, con atteggiamento minaccioso, una bambinetta che aveva combinato qualche “grossa marachella”. Riesce finalmente ad agguantarla, ma, accortosi della paura da cui è assalita la figlia, non ha più il coraggio di continuare; la attira a sè e la stringe forte tra le braccia come per difenderla da quel “cattivo” che era lui prima. E la lirica si conclude riprendendo la frase iniziale, cioè la dichiarazione pubblica dell’ amore del poeta verso il padre. Camillo Sbarbaro (Biografia) (notizie riprese da Internet)
Camillo Sbarbaro, nacque nel 1888 a S. Margherita Ligure. Si dedicò agli studi letterari, così, oltre ad essere un poeta ed uno scrittore, fu insegnante di latino e greco. Ma la sua fama fu data anche dal fatto di essere un importante erborista. Nel 1951 si trasferì a Spotorno, lì vi rimase fino alla morte avvenuta nel 1967.
In “Pianissimo” Sbarbaro è testimone della crisi dell’uomo del primo Novecento. Venuta meno ogni certezza, scomparso ogni punto fermo, si è disorientati innanzi alla realtà. La solitudine e la diffidenza diventano un’amara verità. A questo destino l’uomo non può opporsi, ecco perché deve accogliere la vita, e i colori da essa proposti, con assoluta rassegnazione. Tra le sue raccolte di poesie ricordiamo Resine (1911), Pianissimo (1914) e Rimanenze ( 1955). Oltre le poesie, è fondamentale ricordare la produzione in prosa di Sbarbaro. Trucioli ( 1948) è una fra le raccolte in prosa del poeta.
Sbarbaro visse con semplicità, riflessivo e attento ai dolci sentimenti.
A torto poco studiato nelle scuole, è un grande maestro capace di rendere immagini profonde con parole semplici. Con Sbarbaro siamo verso l’essenzialità espressiva, il poeta, tuttavia, non cade mai nella banalità
.
Permettetemi, ora, di rivolgere un AUGURIO SPECIALE anche al mio papà che purtroppo non c’è più da tre anni.